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Perché non basta un marchio per fare una marca



“Cento di questi giorni” si usa dire alla persona festeggiata per augurarle un secolo di vita. Se cento anni rappresentano un traguardo storico per ogni essere umano, così deve essere anche per il Made in Italy, un patrimonio culturale e sociale che mezzo Mondo ci invidia e che non può subire ridimensionamenti nella scala della longevità, essendo dopotutto il frutto dell’ingegno di imprenditori e imprenditrici.
Questa precisazione si inserisce nel solco di alcune recenti iniziative istituzionali e governative che vorrebbero promuovere un settore strategico dell’economia italiana e che inconsapevolmente e quindi colpevolmente hanno finito per creare un corpus ibrido di denominazioni non controllate e non certificate.
La prima mossa risale al 2011 quando Unioncamere decide di dare il via alla composizione di un registro nazionale delle imprese storiche. Il progetto, meramente celebrativo, se da un lato osserva come requisito di accesso un’attività aziendale quantomeno ultracentenaria (senza che questa venga verificata dalle Camere di Commercio…), dall’altro perde ogni forza aggregante perché prevede l’iscrizione - accanto alle imprese produttrici di beni e servizi - anche degli esercizi storici e delle botteghe storiche, ossia di realtà economiche, spesso di piccolo taglio, che distribuiscono tramite la vendita i prodotti altrui. Il risultato? Un calderone nel quale si sono trovate coinvolte sia l’azienda vitivinicola che dal 1600 commercializza le proprie etichette sia la macelleria che dal 1911 propone carni e insaccati usciti da allevamenti italiani e stranieri.
Nel 2017 è la volta del Ministero dello Sviluppo Economico che tramite l’Ufficio Marchi e Brevetti lancia un bando per la “concessione di agevolazione alle imprese per la valorizzazione dei marchi la cui domanda di deposito sia antecedente al 1 gennaio 1967”. L’iniziativa, che riscuote scarso successo, si presenta anzitutto lacunosa nella formulazione in quanto si rivolge ai “marchi nazionali in corso di validità, registrati presso l’UIBM o presso l’EUIPO” escludendo quindi (paradossalmente) l’accesso al bando per i marchi ultracentenari depositati in altre sedi e in altri periodi storici. Ma soprattutto restringe il parametro della longevità che Unioncamere aveva istituito, portandolo da 100 a 50 anni, e così mancando di valorizzare appieno le oltre 500 realtà ultracentenarie che da secoli hanno dato continuità e lustro al Made in Italy.
Visti simili presupposti non c’è da meravigliarsi che nella recente proposta di legge a tutela dei marchi storici - firmata da Riccardo Molinari, capogruppo della Lega a Montecitorio - il fattore ultracentenarietà si presenti come un optional piuttosto che come sinonimo di eccellenza. Anche questo provvedimento, maturato a seguito delle vicende dell’impresa Pernigotti e seppur lodevole per l’attenzione che riserva al vincolo tra impresa e territorio, denota una conoscenza approssimativa di quel patrimonio di saperi e di tradizioni che la UISI Unione Imprese Storiche Italiane - al pari di altre associazioni internazionali come Les Hènokiens e i Tercentenarians – intende salvaguardare proprio sotto il profilo della longevità ultracentenaria.
Perché ultracentenaria? Perché un qualsiasi marchio per diventare una “marca” rispettabile deve aver superato la prova del tempo. Deve aver instaurato con il territorio di origine una reciproca osmosi sociale e culturale traducibile in benefici per la popolazione. Deve aver vinto le continue sfide imposte dagli eventi storici, forte dell’affinamento del proprio know-how e della permeabilità alle spinte innovative. Deve aver saputo intessere un rapporto etico con la forza-lavoro che si concretizza nell’impiego di generazioni di maestranze discendenti dallo stesso ramo familiare. Deve aver dimostrato la propria credibilità verso i mercati e quindi verso i consumatori, conservando standard di qualità e di originalità anche a fronte delle avversità del contesto economico e finanziario. Ecco perché dopo 100 anni un marchio si trasforma in una “marca”. Ecco perché un’impresa fondata nel lontano Rinascimento o nel tumultuoso Risorgimento merita qualche attenzione in più rispetto a un’azienda nata nel boom economico del secondo dopoguerra.