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Un’intervista al Marchese Piero Antinori sul Corriere Della Sera

 Piero Antinori: «I miei antenati 300 anni fa crearono la Doc Il vino? Mestiere da donne»

 

 

Il marchese (25ª generazione): non capisco chi dice no a tutto, bisogna cercare di costruire. I vini di cui sono più fiero sono il Tignanello e il Solaia

 Un Antinori compare sul Corriere della Sera già l’11 marzo 1876, a meno di una settimana dalla nascita del quotidiano: il marchese Orazio è appena partito da Napoli alla testa della «Grande Spedizione» della società geografica italiana verso i grandi laghi equatoriali. Nella sala riunioni della cantina-tempio inaugurata nel 2012 nel Chianti classico Piero Antinori, 78 anni, padre di due dei vini italiani più famosi al mondo, il Tignanello e il Solaia, guarda divertito una copia di quel giornale. I primi documenti a riportare il nome Antinori a Firenze risalgono all’anno mille: una stirpe di mercanti, banchieri, esploratori (e qualche politico). Nel 1385 Giovanni di Piero Antinori si iscrive alla corporazione minore dei vinattieri. L’orologio delle generazioni Piero lo fa partire da lì: 26, con le sue figlie. «Da allora, in ognuna almeno un membro della famiglia si è occupato di vino. Nel mondo qualche altra azienda con la nostra età c’è, ma non tutte hanno avuto la fortuna di questa continuità».

«Il mio interesse per la vicende della famiglia è aumentato con gli anni — racconta il marchese —. Ora faccio anche delle ricerche. L’anno scorso, per esempio, sono stati celebrati i trecento anni dall’invenzione della prima denominazione di origine controllata per un vino, che al contrario di quello che tutti pensano non è un’idea francese. Bene, ho scoperto che c’era dietro un Antinori: Antonio, ministro delle Finanze di Cosimo III de’ Medici e produttore di vino, che fu nominato segretario generale della congregazione incaricata dal Granduca di delimitare alcune zone, tra cui il Chianti, e dettare delle regole di produzione».

La descrivono come un avido lettore di libri di storia.

«Sì, ora sto leggendo L’economia della Firenze rinascimentale, di Richard Goldthwaite. Sono affascinato dai nostri avi di quel periodo: erano colti, coraggiosi, andavano per l’Europa a costituire le loro filiali di banche e assicurazioni. Univano a quella professionale una incredibile cultura umanistica. La passione per la bellezza li portò a finanziare le arti, e Firenze si ritrovò a ospitare una concentrazione mai vista di geni. C’è un quadro del Bronzino che amo molto, al Met di New York, in cui si vede un giovane mercante fiorentino guardare lontano con nella mano destra un libro, simbolo insieme di cultura e spirito imprenditoriale. Mi illudo e spero che un po’ di quella ispirazione sia arrivata fino ai nostri giorni».

Per descrivere la stagione di cambiamento radicale nella cultura enologica italiana di cui è stato protagonista si parla proprio di Rinascimento...

«Gli ultimi 50 anni hanno segnato una rivoluzione: il vino italiano, storicamente orientato alla quantità, ha cominciato a concentrarsi sulla qualità. È stato un processo che abbiamo cavalcato e contribuito a creare. Ma le nostre sono basi solide, per me è stato più facile».

Ventisei generazioni. Eppure ci sono stati momenti in cui ha avuto paura che questa linea si spezzasse. Gli anni 80, quando dopo l’uscita dei suoi fratelli dall’azienda vendette delle quote alla multinazionale Whitbread.

«Anche se non sono passati tantissimi anni il mondo è cambiato molto. Le mie figlie — Albiera, Allegra e Alessia — erano ancora piccole, e io non riuscivo a immaginarle tra vigneti e cantine. Oggi c’è un numero incredibile di donne bravissime che si occupano di vino, è un settore che si attaglia loro benissimo».

Allora con tre figlie femmine temeva di non avere eredi, l’anno scorso ha passato la presidenza della Marchesi Antinori ad Albiera: l’azienda è nelle mani sue, delle sorelle e dell’amministratore delegato Renzo Cotarella.

«Sì, fu proprio vedere come Albiera, meno che ventenne, avesse già ambizioni in azienda, a motivarmi al riacquisto. Oggi poi le mie figlie potranno passare il cognome ai miei nipoti garantendo una continuità che non è più solo per linea maschile. Noi teniamo moltissimo al legame tra famiglia e azienda, e poterne portare il nome fa la differenza».

Molti grandi gruppi del vino sono ormai in mano straniera. Dopo l’esperienza con gli inglesi non è mai più stato tentato?

«Mi sono difeso facilmente. Sono innamorato di questa azienda e non ci avrei rinunciato per nessuna cifra al mondo, anche perché mi è costato molta fatica riprendermela. E proprio per evitare questo rischio in futuro che abbiamo istituito un trust. Le imprese familiari sono insieme la forza e la debolezza del nostro Paese: a volte quando la famiglia si allarga si scatenano velleità di supremazia, o il fondatore può essere un genio e i successori non all’altezza. Con la fondazione, se in una generazione nessuno è in grado o vuole gestire l’azienda, ci si affida a un manager e si riprende il filo con la generazione successiva. Noi non saremmo quello che siamo se la partnership con gli inglesi fosse continuata: le nostre strategie di lungo termine erano inconciliabili. Lavoriamo in un settore che non prevede scorciatoie. Dipendiamo da madre natura, e per non fare compromessi sulla qualità in qualche annata si deve essere pronti anche a rinunciare alla produzione di uno o più vini. Si pianta una vite oggi e il primo ritorno sull’investimento magari non si ottiene prima di dieci anni. Grazie al progresso dei mezzi tecnologici siamo in grado di fare il vino molto meglio dei nostri nonni, ma certi valori restano, e non si imparano all’università. È dovere di ogni generazione provare a trasmetterli alla successiva».

Parla ancora di questo lavoro in maniera romantica, ma la Marchesi Antinori è un’azienda internazionale: 16 tenute in Italia, dalla Toscana alla Puglia, sette nel mondo, dagli Stati Uniti all’Ungheria, con 23,4 milioni di bottiglie vendute e un fatturato di 174 milioni di euro.

«Ma ci teniamo a conservare un approccio artigianale, ci piace toccare la bottiglia. E anche se naturalmente ci lusinga che un critico come Robert Parker o una rivista come Wine Spectator ci diano punteggi alti, cerchiamo di fare prima di tutto i vini che piacciono a noi».

Eppure in tanti oggi, soprattutto nel settore enogastronomico, pensano che «piccolo» sia sinonimo di cura e qualità.

«Guardi, anche Luigi Veronelli parlava del “vino del contadino”. Ma si riferiva, ne ho parlato molte volte con lui, all’approccio artigianale, e può esserci un contadino che non ce l’ha, e un grande produttore che lo conserva. Per noi è un valore combinare tradizione e innovazione».

Nella sua autobiografia, «Il profumo del Chianti», ricorda di quando, bambino, suo papà Niccolò la portò alle vecchie cantine di San Casciano, appena ricevuta la notizia dei danni inferti dai tedeschi che si ritiravano sotto l’incalzare degli Alleati.

«Il vino nelle botti era stato mitragliato, le cantine avevano subito ingenti danni, dovette ricominciare praticamente da zero. Mio padre è vissuto tra due guerre, e non sempre ha potuto dedicarsi all’azienda come avrebbe voluto, ma se siamo quello che siamo molto lo devo a lui. Istintivamente, non per formazione, era un uomo di marketing e non se ne vergognava. Oggi tutti vorrebbero avere il nome o magari uno stemma sulla bottiglia, ma allora i suoi amici proprietari terrieri non si volevano sporcare le mani con la parte commerciale. Si è molto dedicato a me nella sua vita, gli ero legatissimo. È stato lui a trasmettermi l’amore per il patrimonio familiare, lui a ricomprare il palazzo (palazzo Antinori, in piazzetta Antinori, a due passi dal duomo di Firenze, ndr).

Lei invece qui, a pochi chilometri da quei terreni, ha costruito casa Antinori del futuro, una cantina da oltre 100 milioni di euro. Un investimento, ha detto, che non ha «giustificazione economica nel breve periodo».

«(ride) È così, ma è stato il coronamento della mia vita e un lascito per le generazioni future. Abbiamo unito uffici, produzione e vendite e ci siamo aperti al pubblico: il turismo è oggi la forma migliore di comunicazione del vino. Abbiamo 40-50 mila visitatori l’anno che diventano i nostri migliori ambasciatori».

Qual è il suo vino del cuore?

«I vini sono come i figli, ma il mio figlio più uguale degli altri è il Tignanello. È stato una pietra miliare per noi e per il vino italiano, ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra».

Come ha votato al referendum?

«Sì convinto. E ho cercato di persuadere altre persone. Voglio molto bene al mio Paese e mi piacerebbe vederlo sulla strada della modernizzazione, ma il nostro assetto istituzionale non è al passo con i tempi. Tra chi vota per partiti populisti c’è chi soffre economicamente, ma anche chi è stufo per burocrazia e servizi inefficienti. Ora ci siamo infilati in un vicolo cieco. Non capisco questa passione per il no: no all’euro, no alla Nato, no a tutto. Io sono di un altro pianeta».

Da quando ha passato il testimone ad Albiera si sente in pensione?

«In realtà continuo a fare esattamente quello che facevo prima. E c’è una cosa che non delego ancora a nessuno: il giudizio finale sui vini. Non mi fermo perché voglio bene all’azienda e perché mi diverto ancora. Ecco, devo dire che nella mia vita ho lavorato parecchio ma mi sono anche molto divertito».

 

Intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 15 aprile 2017 a firma Marilisa Palumbo